Nuovo elemento nella patogenesi della malattia di Alzheimer

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 21 settembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Nel 2003, quando abbiamo pubblicato su questo sito gli estratti della monografia del nostro presidente sulla malattia di Alzheimer, erano ancora recenti le nuove acquisizioni proposte al World Congress del 2000, nel quale si paventava il rischio di giungere al 2025 con il preoccupante incremento di casi previsto dalle proiezioni epidemiologiche[1] e senza aver trovato nuove soluzioni terapeutiche in grado di contrastare efficacemente i meccanismi patogenetici e arrestare la progressione della malattia. A circa vent’anni di distanza dallo “stato dell’arte” di inizio millennio, soprattutto se si considera la mole di lavoro di ricerca svolto in tutto il mondo, il bilancio non è certo positivo.

Nonostante un considerevole numero di nuove acquisizioni, spesso di notevole interesse teorico, non si è ancora compiuto l’atteso passo in avanti decisivo per poter concepire terapie in grado di impedire la neurodegenerazione cerebrale. I dati epidemiologici sono sostanzialmente in linea con le previsioni, con un’incidenza simile in tutto il mondo, che raggiunge i 125 nuovi casi per 100.000 nella fascia di età superiore ai 60 anni, e una prevalenza di 10.800 su 100.000 oltre gli 80 anni. Ma la necessità di un salto di qualità nella conoscenza dell’eziopatogenesi è resa con immediata evidenza da un fatto esemplare: in due gemelli monovulari di una famiglia nella quale ricorre la malattia di Alzheimer, uno ha sviluppato le manifestazioni cliniche a 60 anni, l’altro a 80 anni[2]. Una differenza di venti anni nell’esordio, verificatosi in epoca ancora presenile in uno dei due gemelli, evidenzia un’importanza notevole di fattori diversi dalla causa genetica nota nello sviluppo dei processi responsabili della neurodegenerazione.

In attesa che si compia questo progresso decisivo, continuiamo a registrare i risultati più interessanti della ricerca. Pilar Esteve e ventuno colleghi sembrano aver identificato un nuovo elemento nella patogenesi della degenerazione cerebrale nella proteina SFRP1.

Come è noto, la deposizione di aggregati dei peptidi β-amiloidi che formano le placche – contrassegno patologico individuato dallo stesso Alois Alzheimer insieme con la degenerazione neurofibrillare intraneuronica – dipende dall’elaborazione pro-amiloidogenica del precursore polipeptidico APP (amyloid precursor protein). Ora, è stato dimostrato che la via enzimatica alternativa caratterizzata dall’intervento della metalloproteasi ADAM10 previene la formazione di β-amiloide e, pertanto, si è ipotizzato che una riduzione di attività di questa via enzimatica possa essere all’origine di uno squilibrio che facilita la formazione delle placche. Seguendo questa ipotesi di lavoro, Esteve e colleghi hanno trovato un risultato di notevole interesse.

(Esteve P., et al. Elevated levels of Secreted-Frizzled-Related-Protein 1 contribute to Alzheimer’s disease pathogenesis. Nature Neuroscience 22, 1258-1268, 2019 Epub ahead of print https: //doi.org/10.1038/s41593-019-0432-1, 2019).

La provenienza degli autori è la seguente: Center of Molecular Biology “Severo Ochoa”, CSIC-UAM, Autonomic University of Madrid (Spagna); CIBER of Rare Diseases (Spagna); CNM, Institute of Health Charles III, Madrid (Spagna); Neuropathology Institute, Bellvitge Biomedical Research Institute, University Hospital of Bellvitge, University of Barcelona, Barcelona (Spagna); CIBERNED, Madrid (Spagna); Department of Neurology, Foundation Jimenez Diaz, Madrid (Spagna); Neuropathology Laboratory, Foundation CIEN, Alzheimer Center Reina Sofia Foundation, Madrid (Spagna); Department of Neurodegenerative Disease and Geriatric Psychiatry, University of Bonn, Bonn (Germania); German Center for Neurodegenerative Diseases (DZNE), Bonn (Germania).

Con queste parole riferite alla paziente Auguste Deter, annotate da Alois Alzheimer nel 1906 e pubblicate nel 1907, si vuole abbia avuto inizio la storia dello studio della più grave forma di demenza neurodegenerativa:

“Una donna di 51 anni ha mostrato gelosia verso suo marito come primo segno rilevante della malattia. Presto si è potuta notare una perdita di memoria rapidamente ingravescente. Non era in grado di orientarsi nel suo appartamento. Portava oggetti avanti e indietro e li nascondeva. A volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad urlare”[3].

Come è noto, l’esame istologico post-mortem del cervello della paziente consentì l’identificazione dei due contrassegni patologici, ossia le placche amiloidi e la degenerazione neurofibrillare intraneuronica, ancora oggi ritenuti distintivi della neurodegenerazione alzheimeriana. È meno noto che, subito dopo questo caso, Alzheimer pubblicò quello del paziente Johann F., anche lui affetto da una forma di demenza presenile con caratteristiche cliniche molto simili, ma priva di degenerazione neurofibrillare (neurofibrillary tangles) all’esame del cervello[4]. Dodici anni fa, dei ricercatori afferenti all’Università di Regensburg (Germania) hanno rintracciato i discendenti di Johann F., hanno ricostruito l’albero genealogico, risalendo fino al 1670 e identificando 1403 discendenti, e condotto uno studio genetico con l’apporto di genetisti del calibro di Peter St. George-Hyslop, noto per l’identificazione dei geni presenilina 1 e presenilina 2[5]. Solo quattro discendenti viventi erano affetti da malattia di Alzheimer, verosimilmente trasmessa come un carattere autosomico dominante, e non presentavano mutazioni nei geni APP, PS1, PS2, PRNP e BRI. Questi risultati deponevano a favore della tesi che patologie come quella di Johann siano diverse dalla malattia di Alzheimer.

Si è citato questo esempio perché si ritiene che la conoscenza sempre più dettagliata degli eventi patogenetici potrà consentirci di identificare processi comuni, e in un certo senso obbligatori per lo sviluppo della malattia, e distinguerli da processi che si verificano solo in alcune forme. Secondo la tesi della nostra scuola neuroscientifica la categoria nosografica della malattia di Alzheimer comprende in realtà entità patologiche distinte e, probabilmente, la completa definizione dell’eziopatogenesi porterà a terapie specifiche per le singole entità.

Torniamo, dunque, alla nuova acquisizione presentata nello studio qui recensito.

Pilar Esteve e collaboratori hanno studiato la regolazione dell’attività di ADAM10, in particolare la sua riduzione (downregulation) da parte della sua molecola inibitrice secreta endogena SFRP1 (secreted-frizzled-related protein 1), e hanno verificato se una tale bassa attività della metalloproteasi che catalizza la via alternativa alla formazione di peptidi amiloidi sia presente come tratto, e con questo meccanismo, nelle forme non familiari di malattia di Alzheimer, ossia le più frequenti.

Esteve e colleghi hanno accertato che SFRP1 è significativamente aumentata nel cervello e nel fluido cerebrospinale di pazienti con malattia di Alzheimer, si accumula nelle placche amiloidi e si lega ai peptidi β-amiloidi.

In modelli murini della malattia di Alzheimer, l’iper-espressione di Sfrp1 ha anticipato la comparsa delle placche amiloidi e di neuriti distrofici, mentre la sua inattivazione genetica o l’infusione di anticorpi neutralizzanti l’α-SFRP1 ha favorito l’elaborazione non amiloidogenica del precursore APP.

La sperimentazione ha mostrato che la ridotta funzione di Sfrp1 abbassa il tasso di accumulo dell’amiloide nelle placche, migliora il quadro istopatologico dei tratti associati alla malattia di Alzheimer, previene la perdita di potenziamento a lungo termine e lo sviluppo di deficit cognitivi.

In sintesi, seguendo quanto affermato dagli stessi autori, lo studio qui recensito rivela un ruolo cruciale di SFRP1 nella patogenesi della malattia di Alzheimer e la sua possibile identità di nuovo bersaglio terapeutico.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-21 settembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Si prevede per il 2025 negli USA che si passi dai 4 milioni di casi diagnosticati nel 2000 a 22 milioni di casi (v. G. Perrella, La Malattia di Alzheimer – un’introduzione. BM&L-Italia 2003, nella sezione “In Corso”).

[2] Adams and Victor’s Principles of Neurology (Ropper, Samuels, Klein), 10th ed., p. 1064, McGrawHill, New York 2014.

[3] Alois Alzheimer cit. in Note e Notizie 00-03-07 I discendenti di Johann, paziente di Alzheimer.

[4] Corrispondente alla forma “Plaque-only type” della comune classificazione internazionale della malattia.

[5] Note e Notizie 00-03-07 I discendenti di Johann, paziente di Alzheimer.